Rivolgo un saluto molto cordiale a tutti i presenti, al Presidente della Regione, al Presidente della Provincia, alla Signora Sindaco, al Presidente dell’Unione Montana, a tutte le autorità e, attraverso il Sindaco, vorrei rivolgere un saluto a tutti i cittadini di Valle Mosso.

Tengo a dire a lei e al presidente dell’Unione Montana che ricordiamo un evento tragico, rammentando le sofferenze di allora. Anche io sono qui con un gesto doveroso ma anche molto lieto di trovarmi in questa splendida Valle, tra queste montagne piene di fascino con il sole e con la pioggia. Vorrei fare un saluto molto cordiale a tutti i Sindaci, ringraziandoli molto per il loro prezioso lavoro che so quanto sia impegnativo e faticoso. Ringrazio il sig. Paolo Botto Poala che ci ha descritto quello che poc’anzi ha detto il presidente dell’Unione Montana, che nulla può essere come prima. E questo è stato registrato allora. Cinquantotto vittime, la più piccola aveva 2 anni. Le tragedie lasciano tracce irreversibili nelle menti e nei luoghi. Non bastò, a cancellarle, neppure la risposta orgogliosa e generosa - ricordata ora dal presidente dell’Unione Montana, Carlo Grosso -, da parte delle popolazioni di questa terra dopo l’alluvione che colpì il Biellese orientale e altre zone del Piemonte, in quel 2 novembre di cinquanta anni fa. Le morti, le distruzioni materiali, le ferite al territorio, sollecitarono una forte reazione: “rialzarsi e ripartire”. Ricordiamo l’alluvione di Firenze, del Biellese, poi il Friùli e di tanti, troppi, altri eventi. E nulla ha potuto essere come prima. La rincorsa tra la sfida lanciata dalla natura all’uomo che, a sua volta, l’aveva sfidata, ci richiede una riflessione matura, non episodica. Come quella che avete, in questa occasione, voluto offrire in questa occasione. Tranne per i casi di eventi naturali non contrastabili, la trasformazione del territorio non è casuale: è frutto di speranze, di necessità, di scelte, di errori. Ne abbiamo tratto testimonianza ininterrotta in questi decenni, dove abbiamo vissuto l’alternanza - quando non l’alternativa - tra l’indispensabile cura di tante ferite e interventi di prevenzione, mai comunque bastevoli e esaustivi. Eppure questa consapevolezza del limite non esime l’uomo dalle proprie responsabilità. Lo vediamo in questi giorni, stiamo vivendo settimane di rinnovato lutto e preoccupazione. Eventi che, sin qui, abbiamo considerato straordinari - e fanno pensare di non esserlo -, hanno investito molte regioni italiane. A chi sta vivendo tempi di difficile emergenza, confermo l’impegno e la vicinanza dell’intera collettività nazionale. Permettetemi di prendere a prestito una delle foto simbolo dell’alluvione di queste vallate: la bimba, Dorina Cerri - qui presente e che saluto – allora in braccio ad Agostino Bova, un militare dell’Arma dei Carabinieri, recentemente scomparso, che la sta portando in salvo. Saluto anche il maresciallo Giuseppe Cossu, ritratto anch’egli in questa fotografia. Una foto significativa, emblematica: lo Stato ha saputo essere presente. Lo Stato c’è, deve esserci, ci sarà sempre ancora, laddove si manifestassero situazioni di precarietà e di pericolo. Oggi in Veneto e in Sicilia, in Friuli, in Liguria e in Trentino, ieri qui nel Biellese. In queste circostanze la comunità nazionale sa raccogliersi e rispondere in maniera adeguata. Così come qui seppero fare, nell’emergenza e nella ricostruzione, gli operai e gli imprenditori; gli amministratori dei Comuni e i volontari che qui replicarono la straordinaria mobilitazione dell’alluvione di Firenze. Una vera e propria partecipazione popolare che manifesta l’essenza democratica della nostra Repubblica. Rendiamo onore oggi a tutti questi protagonisti. Un tessuto sociale eccezionale contraddistingue l’Italia; e ogni volta mostra le capacità del nostro Paese di saper reagire alle calamità naturali con una coesione che conferma che il nostro popolo sa riconoscersi in un comune destino. Certo, talvolta, può affacciarsi un sentimento di prostrazione: che si debba sempre ricominciar da capo. Che l’emergenza prevalga ogni volta sulla prevenzione. Che la discontinuità sia da preferire alla lungimirante programmazione. Che le scorciatoie sembrino più attraenti della realizzazione di percorsi solidi. Che il ritorno a modelli di vita del passato, sul terreno della mobilità, della occupazione, dei consumi, sia un orizzonte più rassicurante di quello che la globalizzazione e la integrazione pongono di fronte a noi. Non possiamo e non dobbiamo lasciarci distrarre da polemiche artificiose o da slogan semplicistici. Abbandono e incuria del territorio non possono farla da padroni e aggravare, così, le conseguenze di eventi calamitosi sempre più frequenti. Emerge, in tutto il suo rilievo, la sua primaria importanza per il nostro Paese, il tema delle aree interne, rurali e di montagna, verso le quali si deve ritrovare una attenzione adeguata da parte dei pubblici poteri. La vulnerabilità del nostro Paese è ben nota: oltre il 15% del suo territorio è classificato ad elevato rischio idro-geologico. Gli stati di emergenza si succedono, con danni valutabili, solo per gli ultimi anni, seconda una accurata ricostruzione, ad almeno 10 miliardi di euro. Undici regioni hanno invocato la dichiarazione dello stato di emergenza dal governo in queste settimane. Il milione e mezzo di metri cubi stimato di alberi abbattuti in questi giorni dagli uragani nel nostro Nord-Est, e che oggi intasano corsi d’acqua mettendo a rischio dighe e sbarramenti, suona come l’ennesimo avvertimento. Opere di contenimento e regimentazione, se non suffragate dall’apprendimento delle precedenti esperienze, talvolta ottengono risultati opposti a quelli prefissati, creando condizioni per futuri disastri, violando equilibri naturali. L’occupazione delle zone di espansione dei corsi d’acqua, con insediamenti di diverso genere, crescente nel tempo nel nostro Paese, ha giocato, naturalmente, un ruolo gravemente negativo, aumentando i pericoli. La strada non è quella della ulteriore cementificazione degli ambiti naturali, dell’indiscriminato consumo dei suoli. Uno sguardo lungo che vede al futuro in queste materie può far la differenza ed evitare le terribili perdite umane che si verificano e che dobbiamo dolorosamente registrare. La affermazione, anche in questo campo, dei principi di legalità, deve saperci accompagnare. Limitarsi a evocare la straordinarietà di fenomeni che si ripetono con preoccupante frequenza per giustificare noncuranza verso progetti di più lungo periodo, è un incauto esercizio da sprovveduti. Le iniziative ultradecennali di messa in sicurezza di queste vallate rappresentano, al contrario, manifestazione di saggezza e di lungimiranza. Non debbono essere le risorse a essere lesinate: vi sia una rimodulazione delle priorità di spesa. La tutela ambientale e idro-geologica è amica delle persone, ne salvaguarda la vita e difende così il futuro delle nostre comunità. Il recupero di fondi per un grande piano di sicurezza del nostro territorio non può ovviamente ricadere sulle spalle delle popolazioni interessate. La Repubblica ha il dovere di soccorrere le vittime delle catastrofi e di adoperarsi concretamente, terminata la fase dell’emergenza, per consentire nuove prospettive di vita a questi nostri concittadini. Il Biellese allora non è stato lasciato solo. Anche qui, una fotografia è emblematica. Furono qui, presenti, in quelle settimane, tre miei predecessori: il presidente della Repubblica Saragat; il presidente del Consiglio dell’epoca, Leone, che affidò all’ex presidente del Consiglio Pella il compito di fungere da collegamento con le autorità centrali; l’allora ministro Scalfaro. Nella notte del cataclisma che si scaricava verso la pianura, dopo gli allarmi lanciati dalla rete dei radioamatori a seguito dell’appello di Tito Tallìa Galoppo, una colonna di mezzi blindati si dirigeva verso Cossato e Valle Mosso. Erano i cingolati del 131° della Caserma Scalise di Vercelli, divenuti “soccorritori” a loro volta, dopo l’ordine di abbandono del capoluogo allagato e di ripiegamento verso le alture del Gattinarese. Così la Valle Strona divenne la nuova destinazione; e la bandiera di guerra di quel reggimento, che è qui, fu decorata di una medaglia di bronzo al Merito Civile per essersi prodigata – come venne scritto - “generosamente, con uomini e mezzi, in difficili ed estenuanti interventi di soccorso alle popolazioni colpite, contribuendo validamente a contenere e ridurre i disastrosi effetti della calamità’”. A quella bandiera e a quei soldati, rendiamo omaggio. Così come rivolgiamo un pensiero reverente a Luciano Greggio, Medaglia d’argento al Valor civile alla memoria per avere recato aiuto a persone intrappolate all’interno di un edificio dalla furia degli elementi “sin quando - recita la motivazione - travolto dal parziale crollo dello stabile, sacrificava la giovane vita ai più nobili ideali di umana solidarietà”. A prodigarsi, fra gli altri, il medico dr. Franco Bozzo, al quale venne riconosciuto il diploma di benemerenza civile da parte del Ministero dell’Interno. La triste successione di catastrofi naturali rimane nella memoria di ciascuno: da esse, ogni volta, le istituzioni democratiche hanno cercato di trarre ammaestramenti. Nel campo degli ordinamenti, dei modelli organizzativi, delle attrezzature di soccorso. La prima legge organica sulla protezione civile – ricordata poc’anzi dal presidente Chiamparino con riconoscenza che tutti proviamo - è del 1970, due anni dopo l’alluvione del Biellese Orientale. La legge “tessile”, destinata a regolare i provvedimenti di emergenza assunti dal governo Leone, per la ristrutturazione, riorganizzazione e conversione dell’industria e dell’artigianato tessili, è del 1° dicembre 1971. Con un solo numero di differenza, la legge 1102 del 3 dicembre 1971 stabilisce l’autogoverno delle zone alpine e appenniniche, con la istituzione delle Comunità montane. Se il Biellese non è stato lasciato solo, è vero che il territorio ha saputo, subito, riprendere nelle proprie mani il suo destino. Anzitutto mobilitando assetti non colpiti in quella occasione: lo ha fatto il Comune di Biella, con il suo Sindaco, Borri Brunetto, presidente del Consorzio dei Comuni del Biellese. E al Gonfalone di Biella, giustamente, è stata assegnata, per il contributo offerto alle operazioni di soccorso, la medaglia d’argento al Merito Civile. Fare sopravvivere una identità, una cultura, anche una cultura industriale, non è stato certo facile. Migliaia e migliaia di posti di lavoro erano azzerati. Macchinari e opifici distrutti: le sirene degli stabilimenti smisero di suonare. E’ stata davvero necessaria una vigorosa forza di volontà per riprendere il cammino e difendere, sia pure nell’ambito della più generale crisi che colpiva in quegli anni il settore tessile, la specificità di intere vallate, ove sono nati i più importanti marchi dell’industria laniera italiana. Si trova questa straordinaria forza di volontà quando si scopre, talvolta proprio malgrado, di essere chiamati ad essere classe dirigente nel senso più compiuto dell’espressione. Classe dirigente seppero essere i Sindaci di quell’epoca e quelli che, dopo di loro, dovettero lavorare alla ricostruzione. Figure come Carlo Garrone e, dopo di lui, Gianni Bedotto, a Valle Mosso. Piero Pichetto a Veglio, con la sua instancabile azione diretta all’autogoverno della montagna. Walter Sogno Fortuna a Camàndona. E tutti gli altri. Un patrimonio morale che deve aiutare a orientarci nelle sfide dell’oggi. A distanza di mezzo secolo, se possiamo essere qui a commemorare quegli eventi, con l’orgoglio di averli potuti affrontare e superare, lo dobbiamo certamente a chi ha avuto fiducia nel futuro. Un futuro che ha saputo concretizzarsi respingendo la nozione di periferia per affermare un fecondo collegamento tra saperi e capacità tradizionali, e gli odierni orizzonti dell’economia digitale. Quel futuro che, per riprendere un’immagine di Carlo Garrone, può essere riassunto in una frase che si trova sulla lapide dove ho deposto una corona in memoria dei caduti: “memoria non è venerare le ceneri, ma preservare il fuoco”, come qui è avvenuto. Valle Mosso, 10/11/2018