(SA) - Ero nella casa dove abitavo a Campobello di Licata, quando giunse la notizia del terribile terremoto che aveva colpito la Valle del Belice, coinvolgendo nel disastro comuni della provincia di Agrigento Trapani e Palermo. Ci adoperammo subito per mettere assieme una delegazione che andasse a vedee l’entità del disastro e cosa era possibile fare. Della delegazione facevano parte il sindaco di Campobello di Licata Lillo Gueli, che sarà poi eletto deputato regionale nel 1971, alcuni consiglieri comunali ed io che all’epoca ero segrtario della camera del lavoro di Campobello di Licata. Era una giornata grigia e fredda e piovigginava quando ci mettemmo in cammino. Arrivammo nelle vicinanze di Ghibellina e fummo fermati dalle forze di polizia che avevano messo su una cintura di sicurezza nell’intento di contrastare lo sciacallaggio e di controllare chi voleva passare. Quello che vidi nel primo impatto ed eravamo ancora ai margini della zona interessata, mi sconvolse. C’errano persone che fermavano io mazzi carichi dei primi soccorsi, facendosi dare cibarie, vestiti ed altro, per poi allontanarsi furtivamente ed ammonticchiare il bottino in macchina o nei furgoncini a tre ruote posteggiati nelle vicinanze. La cosa ci fece riflettere con amarezza sulla disonestà di quanti approfittavano delle disgrazie altrui per specularci sopra. Entrammo nella zona terremotata e ci addentrammo tra le case danneggiate dal terremoto e furono altre realtà quelle ad attirare la mia attenzione. La prima realtà che mi colpì fu quella che guardando gli abitanti di quei luoghi, spesso avvolti in coperte o abiti di fortuna, avevo l’impressione di vedere fantasmi che si muovevano senza una destinazione prefissata, senza sapere dove andavano e perché. Gli occhio persi nel vuoto, inespressivi, come fossero assenti dal mondo che li circondava, mentre i volontari li pigliavano per mano guidandoli verso le tendopoli cercando loro un riparo, un posto dove trovare una momentanea sistemazione. Altri si muovevano alla ricerca di parenti e familiari scavando nelle macerie dove prima c’era la loro casa. Quel quadro di case distrutte, di strade piene di macerie, di calcinacci e pareti di muri caduti, di gente che si muoveva in mazzo a quell’inferno, mi accompagnò per parecchi giorni. All’operosità delle forse dell’ordine che incuranti del pericolo scavavano tra le macerie alla ricerca di cadaveri o di persone ancora vive da potere salvare, al lavoro dei volontari che pulivano spazi, distribuivano soccorsi, innalzavano tende, spiccavano due tende più grandi: in una era una tabella dove stava scritto MUNICIPIO e nall’altra era riportata la scrittura “QUESTURA UFFICIO PASSAPORTI”. Nella prima il sindaco e qualche altro impiegato o amministratore cercavano di organizzare i soccorsi ed i vari interventi che potevano programmare, nell’altro impiegati della Questura rilasciavano passaporti a vista per chi voleva emigrare al nord o all’estero, magare per raggiungere qualche parente o qualche amico. Un intervento quet’ultimo, che mi colpì particolarmente per il significato che esso aveva: lo stato non aveva trovato di meglio che incentivare l’emigrazione dei giovani. Si seppe dopo che in quei giorni, oltre sessantamila persone lasciarono i paesi terremotati per raggiungere destinazioni estere dove già abitavano comunità dei paesi d’origine. Se quella intrapresa dallo stato poteva sembrare una soluzione, essa invece contribuì ad un ulteriore spopolamento di quelle zone, ritardandone anche la rinascita, privandole delle forze migliori e più giovani. Un intervento statale che incrementò l’emigrazione in una zona famosa per la sua agricoltura, i suoi vigneti, i suoi uliveti, le serra di primaticci ed altri prodotti che rappresentavano l’ozzatura di un’ottima economia agricola, che si sarebbe ripresa solo dopo molto tempo, puntando anche sulle rimesse degli emigrati. Nota dolente che sta a testimoniare la lentezza degli interventi, ancora oggi sono in piedi ed abitate baracche e case prefabbricate di legno, che servirono in quel lontano 1968 ad ospitare i terremotati fornendo una precaria sistemazione che dura ancora nel tempo. Salvatore Augello