(di Agostino Spataro) -  Ormai è chiaro: quella di Favara è una tragedia siciliana. Tutti concordano che la morte di Chiara e Marianna Bellavia non è stata dovuta al destino cinico e baro, ma a una concatenazione di cause che molto hanno a che fare con l’ignavia degli amministratori e delle burocrazie preposte (di oggi e di ieri), con la frenesia costruttivista di governi e imprenditori che hanno abbandonato i centri storici siciliani al degrado,

allo svuotamento, ai topi e agli immigrati più disperati. Quello verificatosi a Favara, in quell’alba tragica, non è il primo crollo e nemmeno l’ultimo. Ieri, in un comune vicino, a Casteltermini, è crollata una casa, per fortuna, disabitata. Le piogge continuano, pertanto è prevedibile che altri crolli seguiranno. Prevedibile e previsto. Eppure, i nostri centri storici, in gran parte povera architettura contadina, sono come intrappolati nel dissesto, senza speranza di redenzione: continuano a crollare, a morire lentamente e nell’indifferenza generale. Solo dopo i morti se ne parla, ma non troppo. Il tempo necessario per gli ipocriti cordogli e per esperire le tristi incombenze. Sembra che con le vittime di turno si seppelliscano anche le cause che le hanno provocate. Un rituale che si sta ripetendo anche per Favara, nonostante la rabbia dei cittadini e la forte presa di posizione della Chiesa locale, dei parroci favaresi e di mons. Montenegro che è giunto a rifiutarsi di officiare i funerali delle due piccole vittime della strage “annunciata”. Le responsabilità? Sicuramente tante e di diversa natura e caratura che si spera siano accertate, e perseguite, dalla magistratura. Nell’attesa, la società, la politica, i governi regionale e locali, invece di far passerella dovrebbero interrogarsi sulla vastità e gravità del problema dei centri storici e provvedere di conseguenza. Occorrono provvedimenti efficaci e finanziamenti congrui, certi. Questo è il punto ineludibile che da Favara si ripropone all’intera Sicilia, al Paese. Non si può continuare con la vecchia, fallimentare politica di copertura e di legalizzazione dell’abusivismo e di pianificata distruzione dei centri storici. La tecnica è nota ed è stata sperimentata a Palermo, fin dagli anni ‘60: non si recupera perché si vogliono lasciar marcire lentamente le case, gli edifici e spingere gli abitanti ad abbandonarli; indi si resta in attesa del crollo e della demolizione per far posto ai palazzi della speculazione in agguato. Se qualcuno, che non sa dove rifugiarsi, si ostina a restarvi rischia di essere seppellito sotto le macerie. Un disegno cinico che si affida al tempo e agli elementi per lasciar morire i centri storici siciliani, anche pregiati, divenuti luoghi orripilanti, pericolosi da cui fuggire. Un grave problema sociale e urbanistico che ostacola la rinascita delle nostre città, la crescita dell’economia e del turismo. Al contrario, nelle regioni del centro-nord sono stati restaurati e trasformati in veri giacimenti culturali ad alta vivibilità, in una grande risorsa per il turismo. Un altro divario che accusa i ceti politici e imprenditoriali dominanti, ai diversi livelli, che, a disastro avvenuto, non se la possono davvero cavare col cordoglio ipocrita di ministri, assessori e presidenti. Occorre cambiare decisamente metodi e indirizzi politici e programmatici. A cominciare dalla legge, in itinere all’Ars, che certo non favorisce seri interventi di recupero nei centri storici, ma privilegia l’ampliamento (fino al 35%) degli immobili di recente costruzione, anche edificati abusivamente. I favaresi (e non solo loro) sono convinti che la tragedia si sarebbe potuta evitare se alla famiglia Bellavia fosse stata assegnata una casa popolare, magari in una di quelle palazzine, pronte da sette anni, e non assegnate agli aventi bisogno. O solo con una tempestiva ordinanza di sgombero. Come il solito, impazzano le polemiche, ma non s’intravvedono le soluzioni, col rischio che tutto vada a perdersi in un intrigo oscuro nel quale tutti hanno una giustificazione e nessuno torti. Un andazzo singolare e colpevole, dentro cui dovrà districarsi la magistratura inquirente, che gli esponenti politici e di governo non dovrebbero alimentare, dandosi più da fare per risolvere i problemi più acuti che la tragedia ha posto sul tappeto. A cominciare dalla formazione e dalla gestione delle graduatorie da varare rapidamente per far cessare lo scempio delle case non assegnate e introdurre nuovi criteri di effettivo bisogno per dar la casa ai poveri e non ai furbi e ai raccomandati. Infine, è urgente procedere, anche in sede legislativa, verso una più netta separazione fra politica e amministrazione. Non devono più esserci alibi per nessuno. A ciascuno il proprio ruolo cui deve corrispondere una precisa responsabilità, rimuovendo il comodo teorema secondo cui è sempre colpa della onnipossente mafia. In realtà, molti imbrogli nella pubblica amministrazione non hanno nulla a che vedere con la mafia e molto col clientelismo e le tangenti. Insomma, i partiti devono uscire da certe commistioni gestionali, astenersi dall’indicare nomi di consulenti e segretari (andrebbero totalmente aboliti) e limitarsi alle sole azioni d’indirizzo e di controllo. Anche certi sindaci, che si atteggiano a piccoli “re sole”, dovranno capire che il voto non è tutto e che non possono avvantaggiare i loro clientes a danno del bene pubblico e, talvolta, della salute dei cittadini.