(di Agostino Spataro) -  Nella ricorrenza della morte di Leonardo Sciascia, riportiamo la terza ed ultima parte delle riflessioni di Agostino Spataro. (foto accanto)

 11.. Ne parlammo in quelle chiacchierate a Montecitorio. Mi fece capire che presto si accorse che il cambiamento dato per avvenuto in realtà era in gran parte di facciata, anzi di facce. Insomma, un po’ millantato dai dirigenti del nord per indurlo ad entrare in lista a Palermo.

E - aggiungo io- per fare di Sciascia un bel fiore all’occhiello da esibire nelle riunioni romane e nei salotti buoni dell’intellighenzia di sinistra. Lo scrittore riteneva (e diversi fra noi) che Emanuele Macaluso, anche da Roma, continuasse a influire sul partito siciliano, soprattutto sul gruppo parlamentare all’Ars dove operava Michelangelo Russo, uomo di sua stretta fiducia. A parte l’amarezza per l’esperienza del milazzismo, citava in particolare l’episodio, verificatosi ai primissimi anni ’70, della fusione tra Realmonte-Sali (società dell’Ente minerario siciliano) e la Sams dell’avvocato Francesco Morgante, potente imprenditore del sale e intimo dell’ex presidente dc della regione on. Giuseppe La Loggia. Sciascia conosceva bene la vicenda perché edotto dal prof. Antonio Lauricella, sindaco dc di Grotte e comproprietario di una miniera di salgemma in territorio di Petralia minacciata dal piano Ems-Sams. Lauricella non sapendo più dove sbattere la testa (gli amici democristiani gli avevano chiuso la porta in faccia) si rivolse all’uomo di cultura di sinistra, quasi compaesano, che sapeva sensibile ai temi della trasparenza e della moralità pubblica. Consegnò a Sciascia un dettagliato memoriale dal quale si evidenziava la supervalutazione degli apporti privati (Sams) e i comportamenti quantomeno distratti dei partiti politici di maggioranza e d’opposizione. 12.. Anche molti fra noi consideravano quella fusione un inganno che avrebbe fruttato miliardi alla Sams di Morgante e soci e non avrebbe dato corso ai programmi di sfruttamento dei grandi giacimenti di salgemma esistenti e di quelli scoperti, di recente, lungo la costa agrigentina, da Realmonte a Ribera. Così è stato. Sciascia prese a cuore la questione e la girò ai suoi amici del Pci, facendone una sorta di banco di prova per verificare la loro coerenza politica. Vista la sordità dei suoi interlocutori, inviò il memoriale alla segreteria nazionale del Pci, accompagnato da una sua lettera in cui chiedeva un intervento di Roma sul partito siciliano. Non ebbe risposta. La fusione si fece, con la benedizione anche dei vertici regionali del Pci. Non cercai riscontri su ciò che Sciascia mi disse anche perché avendo seguito, da responsabile economico del Pci agrigentino, quella vicenda e i comportamenti dei vari protagonisti, fui incline a crederlo per vero. Per altro quella chiacchierata fusione finirà in tribunale. Chi ne avesse voglia potrà consultare le carte del processo, soprattutto, consiglio, le relazioni del prof. Piga, perito della pubblica accusa. 13.. Ma torniamo al percorso politico di Leonardo Sciascia che nel 1979 è pluri - capolista alla Camera per i radicali. Sarà eletto in più collegi con una valanga di voti di preferenza. Il grande scrittore arriva, dunque, alla Camera nella veste di deputato radicale, accompagnato dalla stima generale anche da parte di tanti esponenti siciliani di quella Democrazia cristiana che lui accusava di contiguità con la mafia e col malaffare. Confesso che vedere lo scrittore tra i banchi radicali mi procurava un certo rammarico. Ero convinto che se ci fosse stata più correttezza l’avremmo potuto portare noi in Parlamento, anche se- vedendolo all’opera - mi persuasi che quella radicale fosse la casacca a lui più appropriata. Politicamente, Sciascia era un libertario. Mai sarebbe diventato un comunista, anche se anticomunista non fu mai. Nemmeno dopo l’increscioso episodio delle presunte “rivelazioni” che Enrico Berlinguer gli avrebbe fatto sui collegamenti delle Brigate Rosse con i servizi di Praga. Sciascia mi raccontò questa vicenda un paio di volte, in Transatlantico, una prima su mia richiesta e una seconda in uno sfogo contro Guttuso. 14.. Cos’era successo? Secondo Sciascia, in un incontro informale e alla presenza di Guttuso, Berlinguer gli avrebbe confidato che, da informazioni in suo possesso, risultava che settori della Brigate Rosse erano in collegamento con i servizi di Praga, fra i più fedeli al Kgb. La qualcosa, detta dal segretario generale del Pci, avvalorava la tesi, da taluni sostenuta durante il sequestro Moro, di un interesse di Mosca a eliminare il presidente della Dc per impedire l’attuazione del progetto del “compromesso storico” che avrebbe aperto al Pci le porte del governo. Com’è noto, tale progetto era stato propugnato da Berlinguer e non condiviso dalle alte sfere del Pcus che temevano un distacco, una deriva “revisionista” del Pci e di altri partiti comunisti europei (Pcf e Pce), impegnati nella svolta dell’eurocomunismo. Sciascia, troppo preso della vicenda umana e politica di Aldo Moro, sulla quale scrisse un pamphlet controcorrente (“L’affaire Moro”), svelò la confidenza fattagli da Berlinguer creando scandalo nell’opinione pubblica e gravissimo imbarazzo nel gruppo dirigente del Pci. Berlinguer smentì su tutta la linea e minacciò querela. Sciascia, invece, confermò e chiamò Guttuso a testimone. Quest’ultimo si venne a trovare in una situazione davvero drammatica giacché doveva scegliere di confermare la parola del segretario del Partito, del cui Comitato centrale era membro prestigioso, o quella del suo amico scrittore, siciliano come lui e compagno di tante battaglie. Guttuso diede ragione a Berlinguer. Non sapremo mai se scelse la verità o l’onorabilità del suo segretario generale. Mentre raccontava queste cose, Sciascia più che indignato mi parve amareggiato. Credo che, in cuor suo, se ne fosse fatta una ragione. Fra i due capiva di più Berlinguer che certo non poteva ammettere d’aver detto quelle cose. Le conseguenze sarebbero state davvero disastrose, incalcolabili. Lo ferì di più la testimonianza sfavorevole del suo amico Guttuso, che, da artista, aveva il dovere della verità facendola prevalere sull’appartenenza politica. 15.. Ricordo che in quel periodo il suo chiodo fisso era la drammatica condizione della Dc dopo i delitti Moro e Mattarella. Una domenica, (19 settembre 1982) andai a trovarlo alla Noce, pochi giorni dopo l’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Gli portai una copia del mio libro “Per la Sicilia”. Lo trovai fisicamente un po’ giù. Mi elencò quattro - cinque malattie di cui soffriva. Soprattutto si lamentò di una fastidiosa cervicale. Ovviamente, parlammo del fatto di Dalla Chiesa e del suo articolo, apparso sul “Corriere della Sera” quella mattina, in cui sosteneva la tesi, un po’ ardita, della mafia come fenomeno eversivo. Una mafia che, avendo perduto la protezione della Dc e quindi dello Stato, uccide tutti quelli che incontra sulla sua strada. Gli feci osservare che questi delitti potevano essere letti anche come la sfida tracotante di una mafia che aspirava al predominio sulla Sicilia. Anche la strage di via Carini poteva essere interpretata come una dimostrazione di forza attuata come da prassi. Quando cioè fu chiaro a tutti che il generale-prefetto era stato un po’ abbandonato dallo Stato in una condizione di solitudine e diffusa ostilità, (non solo mafiosa) e senza i poteri speciali promessi. Gli riferii le “difficoltà”, soprattutto di carattere giuridico, prospettatemi dal ministro dell’interno, on. Virginio Rognoni, a proposito dei poteri non attribuiti a Dalla Chiesa e le “preoccupazioni” circolanti a Montecitorio, prima dell’assassinio, a proposito dei trascorsi piduisti di Dalla Chiesa e di certe riserve provenienti dagli uffici giudiziari di Milano. Sciascia ascoltò, ma restò fermo nella sua posizione. Secondo lui, la Dc, a differenza dei tempi di Portella della Ginestra, oggi vorrebbe distaccarsi dalla mafia. Molti democristiani vivono nel terrore d’essere uccisi. Perciò, non capiva il motivo di tanto accanimento contro la Dc quando, invece, bisognerebbe incoraggiarla in quest’opera di distacco. Accennò a un colloquio avuto, di recente, con l’on. Calogero Mannino. 16.. Si passò, infine, all’argomento che più mi premeva conoscere: il suo futuro politico. Sciascia fu chiarissimo e conciso. Mi ribadì l’intenzione di dimettersi da deputato a conclusione della commissione d’inchiesta sul delitto Moro e di non volersi ripresentare alle prossime elezioni. Smentì anche la voce secondo la quale potrebbe ricandidarsi col Psi di Craxi. Mi rispose: “Se dovessi rifare questa “pazzia” mi ripresenterei coi radicali” Nel PR si era trovato bene, giacché il regime interno gli consentiva la più ampia libertà, anche se era destinato a dissolversi. In ultimo, il discorso ri-cadde sul suo impegno nelle liste del Pci a Palermo. Sciascia scosse la testa e chiuse con un laconico “Si è sbagliato da entrambe le parti”. (novembre 2009 - fine)

 NOTA: * Agostino Spataro è stato dirigente e parlamentare nazionale del Pci. E’ direttore di “Informazioni dal Mediterraneo” (www.infomedi.it) e collaboratore di “La Repubblica”.