(Roberto Mazzarella, direttore del Centro studi)  Inizio il mio intervento, portando alcuni dati che mi sembrano interessanti. Interessanti perché, insieme alle numerosissime comunità di siciliani all’estero giunte anche alla terza generazione,

 vanno registrati flussi sempre più consistenti di italiani che stanno indirizzando e riorganizzando le proprie strategie di sviluppo, di affari di investimento all’estero. Nel 2006, 36.690 studenti italiani erano iscritti in facoltà universitarie straniere, in prevalenza tedesche (19.9 per cento), austriache (16.1 per cento), inglesi (13.7 per cento), svizzere (11.6 per cento), francesi (10.4 per cento) e statunitensi (8.5 per cento). Nell’anno accademico 2005 – 2006, 16.389 studenti universitari italiani provenienti in prevalenza da facoltà linguistiche (19.7 per cento), sociali (13.5 per cento) economiche (10.4 per cento) e ingegneristiche (10.2 per cento) sono stati coinvolti nei programmi di mobilità internazionale Socrates/Erasmus. Dal 2001 al 2006, l’Italia è stata, dopo Francia, Germania e Spagna, la nazione da cui sono partiti più studenti Erasmus (in totale 92.010). Nel 2006 sono stati più di 11 mila e 700 (cioè il 3.9 per cento del totale) i laureati che a un anno dal conseguimento della laurea hanno trovato lavoro all’estero. Il numero delle imprese estere partecipate da aziende italiane è arrivato a quota 17.200, per un volume di addetti pari a oltre un milione e 120 mila lavoratori. Sono 233 mila le aziende manifatturiere italiane con più di un addetto che operano e intrattengono rapporti commerciali con l’estero. Nel 2006 il numero degli italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è aumentato del 15.7 per cento rispetto all’anno precedente e del 52.3 per cento rispetto al 2002 arrivando a quota 75.230… Come si vede non si tratta più di un fenomeno di nicchia… Ma c’è di più. Dall’analisi dei visti concessi per motivi di studio e di lavoro qualificato negli USA, emerge come negli ultimi anni a fronte di una leggera contrazione degli italiani che si trasferiscono per motivi di studio (gli studenti sono diminuiti tra il 1998 e il 2006 dell’1.9 per cento), sia cresciuto significativamente non solo il numero dei borsisti e dei ricercatori (+ 47.9 per cento dal 1998 al 2006, e + 16.3 per cento nell’ultimo anno), arrivati quasi a quota 3.000, ma soprattutto quello dei lavoratori altamente qualificati. Nel 2006 sono stati 13.368 gli italiani a elevata qualificazione che si sono spostati, temporaneamente dall’Italia agli Stati Uniti: di questi 6.179 (+ 51.6 per cento tra 1998 e 2006) sono lavoratori altamente specializzati i cui visti sono rilasciati con specifiche procedure proprio al fine di immetter lavoro molto qualificato nel mercato del lavoro americano. Di questi 1.497 (+ 166 per cento) sono in possesso del visto speciale, concesso esclusivamente a lavoratori con “straordinarie capacità o risultati”. Questo è il contesto attuale. Non tenerne conto significa non cogliere la novità di questi anni, la velocità dei cambiamenti, che potrebbe definitivamente accelerare la definizione dei rapporti tra le comunità siciliane residenti in Sicilia e le comunità siciliane sparse nel mondo. Infatti sono cambiati i rapporti tra centro e periferia. Anzi si ha difficoltà a definire oggi chi é centro e chi è periferia. Ed è un elemento che inaspettatamente gioca a nostro vantaggio: le distanze non sono più un problema. Lo sono state e i nostri siciliani all’estero ne hanno pagato tutti i prezzi. Ma oggi, finalmente le distanze non determinano le marginalità anche territoriali. Il centro e la periferia sono cambiati. Altro elemento che gioca a nostro favore è il concetto di cittadinanza globale. Pensando alle nostre comunità all’estero, al patrimonio sparso per i cinque continenti penso potremmo davvero sperimentare qualcosa di innovativo con riguardo alla necessità di governare la globalizzazione. Pensate, la sicilianità nel mondo come cittadinanza globale. Ma quello a cui siamo chiamati, ed è la nostra vocazione politica, è dare regole e strutture a questa esperienza. Ma anche contenuti e sostanza. Non è necessario creare nuove strutture diplomatiche, politiche ed economiche per dare spazio a questa esperienza di sicilianità diffusa. È necessario piuttosto fare nuove queste strutture, rinnovandole, esaltando e sottolineando aspetti mortificati o mai esplorati o non curati abbastanza. Nuove parole allora acquistano importanza in questo tempo: complessità: l’imprevedibilità e l’interdipendenza di una miriade di relazioni possibili e probabili che sempre meno sono cristallizzate ma mutanti; flessibilità, intesa come capacità – soprattutto relazionale – di sapersi adattare al mutamento repentino delle situazioni ma anche delle stesse relazioni. Si stanno riscoprendo i “beni relazionali” : i rapporti, la gratuità, i valori condivisi… Stiamo scoprendo sempre meglio che il “bene comune” non consiste – come pensavamo – solo in una certa quantità di beni materiali, di servizi e di sicurezza per ottenere i quali siamo costretti a vivere insieme e, avuto riguardo alle comunità siciliane all’estero, ognuno nelle proprie comunità: i siciliani in Sicilia, i giovani di origine siciliana nel paese di immigrazione. Soltanto il commercio poteva giustificare l’eventuale rapporto. Riscoprire i beni relazionali aiuta a mio parere a comprendere meglio il perché si devono non solo mantenere i rapporti con le comunità di siciliani all’estero ma fare divenire questo rapporto strutturale e organizzato. E’ insomma il momento! Il tempo è maturo per svolgere, finalmente, un ragionamento serio su cambiamento e identità. Facendo leva sui “beni relazionali” possiamo rafforzare legami identitari forti e stabili con i giovani di origine siciliana sparsi nel mondo. E’ provato che solo coloro che hanno saputo mantenere i rapporti con la propria cultura di origine, hanno saputo e potuto seguire i processi di cambiamento e di sviluppo anche nel paese di accoglienza. Questi giovani, alla fine, si rivelano essere risorsa (bene relazionale) non solo per il paese in cui vive e lavora ma anche per il suo paese di origine! Una cosa è certa: tutti siamo convinti che il mondo stia cambiando e velocemente. Pochi avvertono l’esigenza che dobbiamo cambiare anche noi: le persone, i gruppi, le associazioni, le università, le istituzioni, le stesse relazioni internazionali… Vorrei raccontare un’esperienza personale. Ho avuto modo, in uno dei miei viaggi in Australia, di essere ospite a cena, presso il “Centro culturale italiano” di Canberra del sindaco di una cittadina poco distante dalla capitale federale. Il sindaco, di origine calabrese, non è mai stato in Italia e amministra da oltre dieci anni il suo comune dove, peraltro, risiedono pochissimi italiani. Nell’ultima competizione elettorale è stato rieletto con il 62 per cento dei consensi. Pangallo, cosi si chiama, ancorché non sia mai stato in Italia, si sente italiano, ne è orgoglioso, mi confessa di sentirsi componente della comunità italiana anche se, probabilmente, sa poco o niente dell’Italia e, sicuramente, non avrà nemmeno il passaporto italiano, e non parla una parola di italiano! “Sentirsi italiano” e nel contempo, come nel caso del sindaco Pangallo, non essere nemmeno in possesso della cittadinanza italiana, è una condizione dell’essere che incontri spesso viaggiando e incontrando le comunità italiane all’estero. Tutto normale, finché si tratta di persone che mantengono rapporti con la madre patria e vengono di tanto in tanto in Italia, ma diviene intricante non appena questo sentimento – “sentirsi italiani” – lo esprime chi, apparentemente non ha legami, nemmeno di parentela, con l’Italia. Perché ho raccontato questa esperienza? Perché penso all’amico Pangallo ma soprattutto ai giovani di seconda e terza generazione i quali, spesso, non riescono a mantenere nemmeno il legame della lingua, eppure coltivano questo sentimento del “sentirsi italiani”… Parlare dell’Italia o meglio, parlare tra italiani che non sono italiani allo stesso modo, cioè non vivono la stessa dimensione di italianità, in un posto cosi lontano, com’è l’Australia, è davvero coinvolgente. E l’essere o vivere la propria “italianità” significava che un’espressione era più completa dell’altra? O l’essere io italiano che viveva dentro i confini italiani fosse una condizione migliore?…No, semplicemente e naturalmente dovevo prendere atto che anche il suo modo di sentirsi italiano ha diritto di espressione, certamente diverso dal modo di esprimere il mio essere italiano, ma eguale dignità e sostanza. Del resto il concetto di identità sia per i popoli sia per le nazioni non può essere inteso come qualcosa di statico, di definito una volta per tutte. Non è qualcosa che non può mutare anche perché espressione di donne e uomini in carne ed ossa, e che deve trovare espressione nel contesto storico e sociale. E’ un continuo, anche se forse impercettibile per tanti, mutare, una continua ricerca di equilibrio e di sintesi tra la storia (la nostra identità che si è venuta creando nel tempo) e i cambiamenti che comunque richiedono un ripensamento e, talvolta, una ridefinizione dei nostri concetti e, perché no?, degli strumenti che li esprimono. Un’ultima riflessione, partendo dal titolo del mio intervento: il luogo e le identità. Il “luogo” è una caratteristica tipica del livello “locale” che può aiutarci a ragionare sul rapporto tra “locale” e “globale”, appunto tra passato e presente. Cerco di spiegarmi meglio. Cosa accade quando si arriva in un nuovo luogo, come è accaduto ai nostri primi emigrati? Si avvia una “Lettura” del contesto e si “prendono le misure”: e lo strumento di paragone è la persona stessa, con le sue storie, la sua cultura. “prendere le misure”; un’attività tipica di chi, “estraneo”, giunge in un luogo con una propria naturale esigenza di “spazio”, che può provocare cambiamento anche sostanziale. Prendere le misure, può avere anche un approccio diverso. La misura è un’invenzione umana. In natura, infatti, non vi è niente che possa essere riconducibile al concetto di misura. La misura è uno strumento di conoscenza perché consente di stabilire dei rapporti di classificazione e quindi costruire scale di valori. In questo modo la misura assume rilevanza sociale e diventa addirittura chiave di lettura delle culture locali nei processi di integrazione e di sviluppo. Dunque il processo di costruzione dei luoghi è essenzialmente dialogo che coinvolge le comunità già insediate e quelle di nuovo insediamento dove sia l’accoglienza sia il cambiamento dovuto ai nuovi arrivati devono sempre essere “sostenibili” perché i “Luoghi” sono troppo legati alle identità. Per noi, popoli sempre più viaggiatori, che ogni giorno siamo aggiornati in tempo reale delle notizie da tutto il mondo, che abbiamo comunità di corregionali sparsi nel mondo, sempre di più il contesto locale in cui viviamo ha significato se rimane capace di rappresentare la dimensione globale verso cui siamo spinti. Cerco di essere ancora più chiaro avviandomi alla conclusione. Se c’è confronto, se c’è dialogo, se c’è spazio si apre un’interessante strada evolutiva che è capace di ridare significato al rapporto tra locale e globale, tra noi e le nostre comunità all’estero e che consente di sentirsi a casa dappertutto, cittadini del mondo. E’ una questione di intensità delle relazioni che si intrecciano, fra abitanti e luoghi, tra identità e luoghi. Il presupposto è riconoscere, in un luogo, che gli abitanti di quel luogo mettono nelle loro azioni la stessa cura che io pongo nelle mie. Che il loro essere russo o indiano… meglio italo americani o italo argentini è vissuto con la stessa intensità – e produce la stessa ricchezza – che io percepisco nel mio essere siciliano, italiano. E’ in quella cura, dovunque io vada, che mi riconosco e mi sento a casa.