(SA) - Anche se in maniera meno frequente di prima, mi capita spesso di muovermi per raggiungere i paesi dell’entroterra siciliana. L’altro giorno, mi è capitato di recarmi a Casteltermini in provincia di Agrigento, e mentre camminavo facendo la gincana tra un fosso e l’altro, alla ricerca di una strada,

riflettevo sul destino di quei luoghi e sulla loro storia. Casteltermi, ad esempio, è collegato con il resto della Sicilia, attraverso tre strade provinciali che si dipartono dalla SS 189: la SP 23, la 24 e 24bis e la 21. Strade tortuose che si arrampicano lungo le salite e i tornanti che portano a Casteltermini, strade piene di buche dove si capisce subito che la mano del manutentore non alberga in quei luoghi da lungo tempo. Vi è poi la SP 22 che parte dalla stazione ferroviaria di Campofranco-Casteltermini ufficialmente chiusa perché franata in vari punti. Per raggiungere la SS 189, o si deve fare il giro dalla Portoempedocle Caltanissetta e quindi entrare nella 189 all’altyezza del bivio di Favara, oppure, per quelli che vengono da Caltanissetta, attraverso la provinciale che unisce a Montedoro, Milena fino all’incrocio sotto Campofranco che immette nella 189. Anche questa provinciale piena di buche e in diversi tratti priva anche di manto stradale. Un quadro questo che si ripete quasi per raggiungere tutti i paesi della Sicilia centrale, che sono rimaste servite da una rete fatiscente di strade provinciali, anche quando le province con un colpo di spugna impudente sono state cancellate dal governo crocetta e sostituite da commissari privi di mezzi ed anche di personale. Un tempo le province avevano anche delle numerosi e capaci squadre di manutentori (stratunara), che provvedeva a tenere in ordine le strade, da tempo tutto questo è scomparso e non è subentrato altro servizio organico. Allora uno capisce senza eccessivo sforzo perché l’enomia di questi paesi non decolla, ma anzi va sempre più indietro anche come popolazione che ha tendenza a diminuire per i giovani che scappano in cerca di un lavoro. Molti di questi paesi, della provincia di Caltanissetta, Agrigento, Enna, ed anche Catania e Palermo, legavano il loro sviluppo all’industria mineraria, unica realtà economica ormai scomparsa. Nessun altro tentativo di industrializzazione è subentrato alle miniere, in barba ai famosi progetti obiettivi che sono serviti solo a spendere soldi senza ottenere nessun risultato. Nessun insediamento è ipotizzabile che venga dall’esterno, se si considera che mancano le cose più elementari per avviare un minimo di progresso: infrastrutture quali strade, rete idrica, zone artigianali fornite di servizi ecc., mentre la rete di artigiani che rappresentavano anche loro una florida realtà economica, oltre ad essere un ottimo tessuto sociale appartenente alla classe media, ormai è quasi un ricordo. Ecco dunque una Sicilia decisamente divisa in due: la fascia costiera che in qualche modo si sviluppa attorno al turismo ed all’indotto che esso porta con se e che si sta cercando di servire con una rete stradale degna di tale nome, la Sicilia interna che manca di tutto, che è stata progressivamente isolata eliminando anche la rete ferroviaria, che non dispone di strade e quelle che vi sono non si differenziano molto dalle trazzere di una volta. Eppure la Sicilia per diversi anni ha potuto usufruire del fondo europeo per lo sviluppo, ma spesso si è trovata nelle condizioni di dovere ritornare indietro i soldi del fondo europeo destinate allo sviluppo, perché non li ha spesi per mancanza di progetti. A questo dualismo in un’isola come la Sicilia, che vanta tutte le premesse per uno sviluppo integrato che tenga conto delle specificità delle varie zone, bisogna porre fine. Necessita frenare la ripresa del flusso migratorio che continua a spopolare i nostri comuni, privandoli delle forze più giovani. Necessita evitare che questi comuni che vivevano attorno all’economia mineraria diventino ospizi per anziani, dove la vita non si rinnova, dove le risorse non vengono utilizzate e messe al servizio dello sviluppo e della crescita economica. In un progetto organico di sviluppo, un ruolo possono giocare le comunità emigrate, se coinvolte in vario modo nella ripresa economica, dove venga utilizzata la grande risorsa che può venire dall’emigrazione. Lavorare ad esempio sul turismo, stimolando il turismo delle radici e cercando di fare affezionare i giovani alla loro terra d’origine. Lavorare sulle possibilità di un’agricoltura fiorente comprensiva della filiera di trasformazione e commercializzazione dei prodotti, sulla vocazione silvo- pastorale di parecchie delle contrade collinose di questi comuni dell’entroterra. Stimolare in uno sviluppo dell’artigianato qualificato che possa utilizzare zone artigianali servite, infrastrutture stradale, rete di trasporti che possano utilizzare trasporto su gomma, ma anche trasporto su rotaie. Garantire mercati e prezzi ai prodotti locali in modo da incoraggiare chi ci lavora a riprendere un percorso interrotto tanti anni fa e mai tenuto in considerazione. Dichiarare guerra spietata alla malavita ed alla corruzione che costituisce una pesante palla al piede del decollo di queste nostre zone. Sperare in forze politiche che tornino a fare il loro dovere, che restituiscano dignità ed ideali alla politica, che tengano conto delle varie realtà dell’Isola, emigrazione compresa, mettendola al servizio di questo nuovo sviluppo che vogliamo augurarci che la politica finalmente voglia intraprendere per il bene dei propri amministrati. (Salvatore Augello)