(Salvatore Augello) Un inferno di fiamme, di crolli, di gente che scappa senza sapere dove, che soffoca, brucia, questo segnò quell’8 agosto del 1956, nel distretto minerario di Charleroi all’interno della miniera di Martinelle, a quota 975. Una sciagura che causò la morte di 262 persone, tra cui 136 52%) italiani. Una sciagura che i9se a nudo alcune verità di cui ancora oggi si parla. La prima verità, riguarda la sicurezza sul lavoro, che ancora i torna di attualità, e che allora più di oggi lasciava a desiderare. La seconda verità, senza dubbio, è quella che i governi italiani di allora, non seguivano l’emigrazione e non indagavano sul rispetto o meno delle condizioni contrattuali. Ma perchè così tanti italiani si trovavano all’interno di quella miniera di carbone del Belgio? Per capire ciò, bisogna ricordare che il 23 giugno del 1946, il governo italiano, firmò un accordo con il governo belga, con il quale si impegnava a mandre in Belgio 50.000 lavoratori da adibire all’interno delle miniere di carbone, cosa che avvenne al ritmo di 2.000 per settimana. In cambio, il governo belga, si impegnava a vendere all’Italia non meni di 2.500 tonnellate di carbone al mese, per ogni mille operai inviati. Nacque allora il detto “venduti per un sacco di carbone”. Le piazze e le strade dei paesi del Mezzogiorno, vennero tappezzate di manifesti che promettevano lavoro per tutti, che trasmettevano il miraggio di una paga decente, di una casa, di altre servizi e vantaggi. Le piazze diventarono luogo di ritrovo dei disoccupati, in cui la domanda di lavoro si incontrava con l’offerta, ossia il disoccupato si incontrava con il caporale, che organizzava i flussi, anche attraverso gli uffici del lavoro. L’industria del nord aveva bisogno di carbone per potere decollare e svilupparsi, quindi era necessario procurarsi mezzi e fonti di approvvigionamento, per acquisire il carbone. Le fonti, furono facilmente individuate: le miniere di carbone della Vallonia in Belgio, dove enorme era la richiesta di personale, per cui le società carbonifere non riuscivano a soddisfare le richieste di carbone che venivano dal mercato. I mezzi per trattare, invece, vennero individuati nei disoccupati del Sud espulsi dall’agricoltura z causa del fallimento della riforma agraria, nelle frotte di minatoridella Sicilia e della Sardegna, che lasciavano la miniera di zolfo siciliane o quelle di pirite della Sardegna, per le condizioni di invivibilità in cui erano costretti a lavorare e per la totale inadeguatezza delle paghe, che non consentivano di mantenere la famiglie. Serbatoi di manodopera furono ance le zone più povere del nor come il veneto di allora ed altre. Fu così, ad esempio, che ci fu questo passaggio consistente dallo zolfo al carbone. Ma fu anche così che le industrie del nord, poterono disporre della materia prima di cui avevano bisogno per potersi sviluppare, crescere, preparare quello che poi andò sotto il nome di boom economico. Un boom economico, che vale la pena ricordare, al nord camminò su due robuste gambe meridionali: l’emigrazione all’estero che assicurò la materia prima (il carbone); l’emigrazione interna che assicurò la forza lavoro (le braccia). Ricordare, quindi, quell’8 agosto e quei 236 morti, che vanno assommate alle altre centinaia che nel corso degli anni sono morti nelle miniere di carbone belga e non solo, è un preciso dovere , è un atto di rispetto nei confronti dei morti, ma è anche un doveroso servizio che vogliamo rendere alla memoria , per non dimenticare il sacrificio di tanta gente, che ha reso grande il nome dell’Italia all’estero e che ha contribuito a scrivere dolorose pagine di storia, che fanno parte integrante della storia del nostro popolo.