Da un anno circa Bernardino Verro era sindaco della sua Corleone, dove era nato il 3 luglio 1866, un mese prima che scoppiasse la famosa rivolta del sette e mezzo. Quel fatidico 3 novembre, aveva lavorato con il consueto impegno nel suo ufficio del palazzo municipale di città dove, giorno dopo giorno, cresceva la insofferenza nei suoi confronti. Molti non amavano la sua indisponibilità ai compromessi, soprattutto con quel mondo di sopraffazione ed arroganza, sostenuto dalla criminalità mafiosa, che da sempre aveva dominato la realtà di quel piccolo centro del palermitano. La sfida che Verro aveva lanciato a chi pensava che i rapporti di forza dovessero restare immutati era ad altissimo rischio e avendone fatto esperienza nel corso della sua travagliata vita, ne era perfettamente consapevole. Non dimenticava, infatti, che qualche giorno prima era sfuggito ad un attentato, a quell’attentato ne sarebbero seguiti sicuramente altri, conosceva l’irriducibilità dei suoi avversarsi tanto che, parlando con amici, dopo quell’attentato, si dice che avesse indicato la casa di fronte alla sua dicendo: “Da quel balcone partiranno i colpi che mi uccideranno. Così sarà fatta la vendetta dei miei nemici”. E, tuttavia, a quella sfida non aveva intenzione di sottrarsi. Alle 15,00 circa, concluso il suo lavoro, accompagnato da alcuni vigili urbani che, per sicurezza, da alcuni giorni gli facevano da scorta, Verro aveva lasciato il municipio. Una compagnia della quale, quasi, subito volle liberarsi, sapeva infatti che i suoi accompagnatori non avevano ancora consumato la loro colazione, non gli sembrava giusto che si attardassero ancora con lui. Licenziò, dunque, la scorta e proseguì il suo cammino in solitudine fino a raggiungere la sua abitazione. E, proprio a quel punto, scattò l’agguato. Partirono proprio da quella casa ch’egli aveva precedentemente indicato, i primi colpi ma Verro, che girava armato, pur colpito ebbe il tempo di impugnare la sua pistola ma non gli fu d’aiuto perché si era inceppata. Altri colpi seguirono i primi, se ne contarono ben quattordici, e il coraggioso agitatore popolare, il protagonista di mille lotte per l’emancipazione del mondo contadino, stramazzò a terra mortalmente ferito. Come da copione, gli assassini, pare che fossero due, riuscirono a dileguarsi sottraendosi alla cattura. Da quanto emerse dalle indagini, che pare nella prima parte furono condotte con particolare scrupolo, mandante dell’omicidio era stato un mafioso locale, tale Angelo Palazzo, conoscente del Verro e già capo di leghe contadine. Palazzo era sto coinvolto in una brutta vicenda di speculazioni finanziarie, per tirarsene fuori era ricorso a cambiali false, scoperto aveva gettato la colpa di quella maldestra situazione proprio sul Verro. Verro, in conseguenza di quelle accuse, era stato arrestato ma, già in istruttoria, se ne era rilevata la estraneità ai fatti mentre il suo accusatore veniva a sua volta inquisito. Il movente del delitto sarebbe stato il desiderio di vendetta ma, anche, la paura Bernardino Verro consegnasse alla giustizia le prove schiaccianti a carico di Palazzo, delle quali doveva essere in possesso. Eliminare Verro significava, dunque, per il mafioso togliere di mezzo colui che con le sua testimonianza l’avrebbe condotto, senza dubbio, in gattabuia. Questa in poche parole la storia di quell’assassinio. Ma chi era Bernardino Verro, divenuto figura simbolica nella lotta per l’emancipazione delle masse contadine siciliane ? La sua vita era stata il manifesto di un impegno che l’aveva visto costantemente in prima linea per rivendicare i diritti dei lavoratori della terra. Giovanissimo, aveva iniziato la sua attività sindacale avvicinandosi al socialismo e impegnandosi per rompere il perverso circuito mafia-proprietà terriera che soffocava le aspirazioni dei contadini, sfruttati e mortificati nella loro dignità. Nel ’93, insieme ad altri compagni, aveva fondato il Fascio di Corleone promuovendone la costituzione nei borghi vicini. Il suo capolavoro era stato il risultato del Congresso di Corleone del 30 luglio 1893, nel corso del quale i Fasci della provincia di Palermo riuscirono ad approvare i cosiddetti “Patti di Corleone”. Un documento di grande rilievo nel quale si andava oltre il dato rivendicativo che fino ad allora era stato proprio di quanti si erano occupati dei problemi del mondo contadino. I “Patti di Corleone” erano infatti una vera e propria piattaforma politica di carattere rivoluzionario nella quale si auspicava che i contadini facessero fronte unico, quindi massa d’urto formidabile, contro i padroni, una piattaforma politica che, tuttavia, non sembrò conciliare solidarietà da parte del partito socialista nazionale rigorosamente chiuso nella sua rigidità ideologica. Convincere i padroni ad accettare i “Patti di Corleone” non fu facile, si può dire che quel consenso glielo si dovette estorcere, ricorrendo a scioperi che interessarono non solo Corleone ma molti altri centri vicini. Furono mesi di astensione dal lavoro i cui effetti pesarono sui contadini, ma anche e soprattutto si fecero sentire per le produzioni agricole che rischiavano di essere compromesse. Proprio questo timore aveva costretto, infatti, nell’ottobre di quell’anno moltissimi proprietari, quelli che erano meno spalleggiati dalla mafia, a piegare la testa. A guidare quegli scioperi c’era Bernardino Verro che, com’era naturale, per il padronato e per i mafiosi locali diveniva sempre più un intralcio per i tradizionali rapporti di forza. A toglierlo momentaneamente di mezzo, ci pensò l’ex rivoluzionario, e allora presidente del consiglio, Francesco Crispi che dando seguito alle sollecitazioni della parte padronale, proclamò la legge marziale in Sicilia e represse con la forza delle armi il movimento dei Fasci Siciliani giustificando quel pesante e antidemocratico intervento con l’accusa, diremo puerile, rivolta ai dirigenti di preparare complotti tesi alla disgregazione del Regno. Bernardino Verro, come altri dirigenti del movimento, fu tratto in arresto e condannato, da un tribunale militare, a 12 anni di carcere per cospirazione contro l’integrità del Regno. In quel carcere, Verro rimase quasi due anni fino al 1896 quando, grazie ad un’amnistia, poté tornare libero. Quella brutta esperienza non lo infiacchì ma, piuttosto ne irrobustì l’impegno. Ben presto lo si vide al lavoro per la costituzione di una cooperativa che puntava all’affitto diretto della terra per smontare, in questo modo, il perverso sistema improntato sull’inquietante intermediazione dei gabellotti, quasi sempre mafiosi. Questa iniziativa destò preoccupazione fra gli intermediari e, dopo i primi segnali intimidatori, che quasi subito gli furono indirizzati, seguì un vero e proprio attentato, il primo di una serie, al quale Verro scampò per puro. Non per questo Verro dismise il suo impegno che, da sindacale era ormai apertamente politico, il partito socialista lo aveva, infatti, candidato con successo al consiglio provinciale e si apprestava a presentarlo per la poltrona di sindaco di Corleone. Ad intercettare quel percorso si frammise la brutta vicenda nella quale l’aveva coinvolto il Palazzo. Fu infatti ancora una volta arrestato ma, riconosciuto estraneo ai fatti, nel 1913, veniva rilasciato. Poteva tornare all’impegno politico e, a furor di popolo, il giugno dell’anno successivo veniva eletto primo sindaco socialista di Corleone. Quell’elezione costituì una svolta nella politica locale e venne vista come una sfida per quanti, mafia e agrari sostenuti anche dalla connivenza della Chiesa locale, avevano fino ad allora spadroneggiato servendosi dell’amministrazione per puntellare le proprie magagne. Quell’elezione costituiva un evidente pericolo da esorcizzare anche, come di fatto avvenne, con l’eliminazione fisica di colui che lo rappresentava. Verro come si è scritto ne era consapevole, i rischi che correva erano evidenti, nessuna sorpresa, dunque, per il suo assassinio, una vera e propria morte annunciata nella litania di morte che ha segnato la storia della terra di Sicilia. PASQUALE HAMEL